Ormai da qualche tempo non sono più in grado di capire cosa siano le cosiddette “pratiche filosofiche”, o meglio, che tipo di categoria intenda denotare chi usa quell’espressione. Riesco infatti a identificare tre suoi possibili significati, tutti però insoddisfacenti:
- il primo rimanda a qualcosa tipo “filosofia che ha effetti pratici”, nel qual caso però ne risulterebbe inclusa ogni forma di filosofia, anche quella accademica e meramente storiografica, perché leggere un libro che parla, commenta, interpreta un filosofo produce comunque sempre un cambiamento su chi lo legge; di conseguenza l’espressione designerebbe troppo e sarebbe inutile;
- il secondo denota invece qualcosa tipo “filosofia che si rivolge alla pratica”, ma allora la categoria finirebbe per comprendere anche la “filosofia pratica”, etichetta con la quale si indicano da almeno due secoli gli studi accademici di filosofia politica, etica, filosofia del diritto, eccetera – quindi l’espressione sarebbe imprecisa e accomunerebbe cose troppo diverse tra loro;
- il terzo, infine, rimanda a “dottrine filosofiche applicate alla realtà”, con la conseguenza però che nella categoria resterebbe inclusa anche la “filosofia applicata”, come infatti vogliono Marinoff e molti americani, ed esclusa la consulenza filosofica/Philosophische Praxis, che – come è ben noto – non è una teoria da applicare e che, infatti, i tedeschi si rifiutano strenuamente di accomunare alla “applied philosophy”.
Insomma, pare non se ne venga fuori e che le “pratiche filosofiche” siano destinate a restare una pluralità confusa, forse per questo giustamente malvista dai filosofi “tradizionali” e tutto sommato poco appetita dai potenziali fruitori.
Tuttavia, la considerazione appena fatta sul terzo possibile significato mi ha spinto a rileggere, reinterpretare e correggere un saggio che scrissi nel 2010, La filosofia è una pratica filosofica (in Francesco Coniglione, a cura di, Interpretare, vivere, con-filosofare. Studi in memoria di Rosaria Longo, Bonanno, Acireale-Roma, 2010, scaricabile in pdf cliccando qui).
In quel breve saggio provavo già allora a chiarire la confusione terminologica relativa all’espressione, giungendo a classificare le “pratiche filosofiche” in funzione del loro essere o meno caratterizzate dalla presenza di finalità e norme operative estranee alla pratica del filosofare – che identificavo minimalmente come “esercizio del pensiero riflessivo rigoroso, condotto in forma di ricerca al fine di pervenire alla comprensione di fenomeni altrimenti incomprensibili – in breve, il processo di pensiero che nasce dalla “meraviglia” di greca memoria, il modello di ricerca incarnato esemplarmente dalla figura di Socrate”. In tal modo potevo includere tra le “pratiche filosofiche” la stessa filosofia tradizionalmente intesa, come “principio qualificante” di “una classe ordinata”: più finalità e prassi estranee alla filosofia confluivano nelle diverse “pratiche”, più esse si allontanavano dal principio qualificante – dal filosofare – pur conservandolo al loro interno e perciò meritando di appartenere alla “classe”. Nel mio schema (c’era anche un grafico a cerchi concentrici) la più prossima al centro ordinatore di queste pratiche era la consulenza filosofica/Philosophische Praxis, in quanto fondata sulla sola finalità di comprendere e chiarificare l’universo di pensiero dell’ospite e priva qualsiasi altro intento (terapeutico, educativo, strategico, trasformativo, consensualizzante, eccetera). A essa seguivano poi le altre pratiche filosofiche che, invece, includevano altre finalità.
Oggi, sette anni dopo, in assenza di sviluppi chiari in merito al senso da dare all’espressione e, anzi, in presenza di chiari segnali di confusione anche in ambito internazionale (ne fanno fede le ultime International Conference, ma anche un dibattito accesosi poco tempo fa su una pagina facebook, a partire da un post di Roxana Kreimer) mi rendo conto che la classificazione che proposi allora può essere reinterpretata, probabilmente con migliori esiti funzionali, non già per includere in essa anche la filosofia tradizionalmente intesa, bensì per escluderla dalle pratiche filosofiche, sì, ma assieme alla stessa consulenza filosofica.
Le ragioni sono semplici: la consulenza è l’unica tra le candidate a non avere finalità estranee alla filosofia tradizionalmente intesa, l’unica cioé ad aver di mira solo la comprensione di un universo concettuale: non vuole “insegnare” alcunché, non intende “curare” né “trasformare” nessuno, non ha di mira il “trattamento” di alcun disagio, non “prende in carico” né si “prende cura” del proprio ospite. In ciò è esattamente sullo stesso piano della ricerca filosofica tradizionale ed è, invece, ben diversa dalle altre attività candidate a essere incluse tra le “pratiche filosofiche” – lo spiego in quell’articolo, nel quale, peraltro, già allora le definivo “pratiche non-solo-filosofiche” o “ibride”.
Ecco così che, per semplicità e coerenza, mi sembra oggi di poter affermare che la consulenza filosofica non è una pratica filosofica, bensì è filosofia (nel senso del filosofare e senza alcun riferimento contenutistico a nessuna “dottrina filosofica”), dalla quale si differenzia solo perché il problema di partenza viene posto al filosofo da un’altra persona e non gli si impone da sè – una cosa, peraltro, che non è rara neppure nella tradizione filosofica, come già osservava Achenbach nei primi anni Ottanta, sostenendo che fosse solo cambiata la committenza: prima grandi soggetti collettivi, oggi i singoli individui. Una tale soluzione – l’esclusione dalle “pratiche filosofiche” della filosofia tradizionale, come tutti hanno sempre voluto, ma anche della consulenza filosofica – oltre che avere come detto le proprie ragioni d’essere, risolverebbe finalmente i problemi di (in)compatibilità tra varie pratiche e la consulenza (per esempio con il counseling filosofico o con le meditazioni) e – per quanto mi riguarda, visto che personalmente mi occupo di consulenza/Philosophische Praxis e di nient’altro – taglierebbe via il problema dell’inclusione o meno tra le cosiddette “pratiche filosofiche” di cose come le “applied philosophies” o la filosofia pratica.
Caro Neri, la tua riflessione è interessante e ha il pregio di fare ordine dal punto di vista operativo. Da un certo punto di vista ribadisce ciò che a suo tempo abbiamo stabilito con la perimetrazione, documento spesso sottovalutato ma al quale alla fine dobbiamo tornare per vedere se, per caso, contenga alcuni concetti fondamentali. Lo sviluppo ulteriore nel tuo ragionamento è che si passa dalla distinzione tra consulenza filosofica e pratiche alla loro separazione (o scissione, se vogliamo essere al passo coi tempi) ma ciò – anche ammesso che non susciti qualche perplessità – apre un’altra questione. La svolta pratica che, come dice l’amico Miccione, è accaduta alla filosofia sarebbe ancora la genealogia comune alla consulenza filosofica e alle pratiche? o – se traggo qualche conseguenza dal tuo pensiero – riguarderebbe solo la consulenza filosofica? E se la risposta al quesito sull’origine comune fosse invece affermativa, quando si sarebbe palesato il presupposto per la scissione? Credo che dovremmo riflettere con calma…..ripensando l’esperienza 😉
Da sempre la filosofia ha voluto la prassi. Con Platone e con Marx. Diciamo che il tuo è un Platonismo scontento, di destra.
Guarda, sinceramente non riesco a capire il senso della tua risposta… Non sto negando neppure un po’ che la filosofia sia prassi e non c’è nulla di più lontano da me del platonismo, quindi di cosa stai parlando?
… a meno che l’espressione “pratica filosofica” non abbia un quarto significato, ossia sia sinonimo, appunto, di “filosofare” o di “attività del filosofare” (o un quasi-sinonimo: la differenza consisterebbe nel fatto che, in generale, una “pratica”, rispetto a un’ “attività”, suggerisce una certa “strutturazione” e una certa “tradizione” o “abitudine” al suo esercizio).
In questa ipotesi (mia, ma, forse, implicita anche in quel tuo vecchio e caro schema a cerchi concentrici, a cui sono molto legato, così come anche in certe altre teorizzazioni, penso a quella di Antonio Cosentino), la consulenza filosofica sarebbe pratica filosofica “per eccellenza” (salvo il suo particolare “innesco” a partire dal problema del consultante, che anche tu rilevi; o salvo la sua “discussa” natura “professionale” o “semi-professionale”).
Le altre “cosiddette” pratiche filosofiche sarebbero, in molti casi (ma non in tutti: un seminario di pratica filosofica può essere condotto filosofando e inducendo a filosofare, senza citare autori o dottrine o leggere testi, come ben sappiamo), pratiche che hanno la filosofia (intesa come somma di dottrine) per oggetto o che se ne servono (di nuovo, però, della filosofia come dottrina) per “insegnare” o “educare” o trasmettere valori o principi ecc. In quanto tali sarebbero “filosofiche” in senso molto debole, analogico o equivoco.
“Pratica filosofica” come sinonimo di “filosofare” era l’uso di Carlo Sini in “Filosofia e scrittura”, che cito in quel mio vecchio articolo. E Sini vi rimanda in buona sostanza alla prassi socratica, sostenendo – come faccio io stesso da tempo – che quella non sia “una tra le tante prassi possibili”, ma l’elemento comune all’agire di TUTTI i filosofi venuti dopo di lui: un lavoro di analisi critica e di ricerca della verità.
Quel significato è certo quello che mi piace di più, o meglio che mi sembra più sensato. Peccato però che esso perda ogni senso se coniugato al plurale: perché di pratica filosofica ce n’è una sola, per quanto possa essere poi eseguita in modi diversi. E allora qual è il senso di parlarne al plurale? Quale quello di distinguere l’agire di Gödel, che ricerca criticamente la verità rispetto ai sistemi logico-formali, da quello di un consulente filosofico, che ricerca criticamente la verità nella visione del mondo del suo ospite? Eppure, come ben sai, nessuno di coloro che fa parte del cosiddetto “movimento delle pratiche” sarebbe disposto a dire che Gödel sia un “praticante filosofico”… E questo, mi pare, perché si usa l’epressione in uno dei significati che ipotizzavo nel post.
Il linguaggio, Giorgio, non è privato ma sociale, e in questo caso mi pare chiaro che la comunità a cui facciamo riferimento lo sta usando in modo diverso sia da come lo stai indicando tu, sia da come lo sto indicando io. Mi pare anche chiaro che il modo in cui viene usato “pratica filosofica” (e ancor più la sua coniugazione plurale) sia contraddittorio e fraintendente. E che perciò urga un correttivo, sia esso l’assunzione di un diverso significato, sia esso il rispetto rigoroso di quello alla fine scelto. A me va benissimo anche la tua proposta, a patto solo che se ne traggano le conseguenze: si cessi di usare l’espressione al plurale, si smetta di distinguere con essa il filosofo che fa ricerca teoretica dal consulente filosofico, dal facilitatore di P4C e da altri operatori assimilabili (per distinguere i quali però serviranno altre espressioni) e si passi a identificare una buona volta i tratti di questa “pratica filosofica” a tutti comune. Io lo faccio da anni, forse ho iniziato proprio quando ho letto “Filosofia e scrittura”, ma – guarda un po’! – proprio tu sei tra quelli che cerca di impedire che tale lavoro diventi un’attività comune… Come spiegarlo?
Mi sono sempre ritrovato nell’asse Socrate-Sini-Pollastri (a cui possiamo anche associare Achenbach se traduciamo, un po’ forzatamente, “philosophische Praxis” con “pratica filosofica”).
Il plurale non mi scandalizza, se ammettiamo una serie di “variazioni sul tema” o, come tu e Miccione spesso dite, di “stili” (per cui Goedel “socratizza” in modo piuttosto diverso da Platone, come converrai).
Probabilmente gli “amici di Acuto” (Cosentino e il gruppo che parla di filosofia come “pratica sociale”) pensano di essere anch’essi, in qualche modo, dentro questo schema, così molti altri cultori di cd. “pratiche filosofiche”.
Nella mia visione “ecumenica” interpreto in modo forse più “esteso” di quello che fai tu l’espressione “attività (o pratica) filosofica” per cui, pur considerando paradigmatico il processo dialogico à la Socrate (e il mio recente libro è tutt’un’apologia di Socrate e, indirettamente, di quel novello Socrate che è Neri Pollastri 🙂 , può essere in senso via via più debole e lato riferita anche a certi tratti delle cd. “pratiche filosofiche” al plurale (talora “ibride”, come tu giustamente osservasti, ma non completamente a-filosofiche).
Sembri non capire – e la cosa mi sorprende – che esiste una differenza tra fare la stessa pratica con stili diversi e fare due pratiche diverse. Baggio e Burgnich avevano stili diversi – uno un fantasista, l’altro un rude difensore – ma giocavano entrambi a calcio; Baggio e Marzorati forse erano entrambi fantasiosi e creativi, ma uno giocava a calcio, l’altro a pallacanestro. E non importa nulla se entrambi giocavano con la palla: le due pratiche erano e sono diverse.
Gödel e Platone socratizzano in modo diverso, certo, ma socratizzano (cercavano la verità su qualcosa) e basta; un facilitatore di una conversazione filosofica in luogo pubblico in genere non socratizza affatto, altrimenti dovrebbe cassare il 90 % degli interventi, del tutto inutili alla ricerca della verità, e invece non lo fa dicendo che “è importante per loro aver detto quelle cose, è un passo per la loro crescita”: qui non si socratizza, casomai si montessorizza. Idem per la P4C. E anche per la (pseudo) consulenza filosofica, se essa affianca alla mera ricerca della verità (o comprensione, o chiarificazione, o conoscenza) anche finalità di soddisfazione dei bisogni, di raggiungimento della felicità o del benessere, ecc.
Ma le cose, terminologicamente e concettualmente, sono anche più drastiche, perché se quella che hai tu stesso chiamato “pratica filosofica” è ciò che caratterizza il filosofare, non puoi metterla sullo stesso piano delle pratiche “ibride” che la inglobano accanto a pratiche che con essa non hanno nulla a che fare. O non chiami lei “pratica filosofica”, o – se lo fai – non usi il plurale e lo sostituisci con altre formule, per esempio “pratiche ibridate con la filosofia”, “pratiche facenti uso del filosofare”. Non è questione di essere ecumenici e di interpretare in modo più o meno esteso, è proprio una questione logica: non puoi conteggiare assieme mele e sassi di fiume. Non ci credo che tu non lo capisca: è che ti rompe le uova nel paniere riconoscerlo 🙂
Riprendendo la tua metafora, è come se per te filosofare fosse esclusivamente “giocare a calcio”, mentre per me fosse sufficiente “fare sport” (nozione più estesa).
Ad esempio la “crescita spirituale” di qualcuno, maieuticamente indotta, nella misura in cui avvicina necessariamente qualcuno alla verità, è, nella mia prospettiva, un genuino “effetto” (o finanche “obiettivo”, ma non voglio aprire questa discussione) del filosofare. Così ci sono molti modi di “socratizzare”, in molti dei quali il “socratizzare” è “implicito” (gli “argomenti” sono “sostituiti” da gesti che, “tradotti”; ne sono un equivalente non verbale). E potrei continuare… per 800 pagine (come ben sai!).
Infine, tu muovi da una logica piuttosto rigida, poco “fuzzy”. E anche poco aristotelica. Le pratiche filosofiche “ibride” potrebbero essere filosofiche “per analogia” (non in senso univoco, ma neppure equivoco), così come l'”esser verde” (qualità) è un “modo di essere” analogo all'”essere una casa” (sostanza): anche se qualità e sostanze differiscono e la sostanza (il “socratizzare”) è il “centro” a cui gli altri modi di essere “tendono” o “si approssimano”, anche la qualità (p.e. “il condurre un caffé filosofico”), “alla lontana”, può essere detta “essere” (una forma, in senso lato o esteso, del “socratizzare”). Basta intendersi. O specificare (nella misura del possibile, una misura sempre limitata, rispetto all’infinita “deriva semantica” di ogni termine) il senso in cui si intendono le cose.
Insomma, nessuno è mai riuscito a “purificare” il linguaggio in modo da far corrispondere a ogni concetto una parola e viceversa (utopia di Carnap o del primo Wittgenstein).
No Giorgio, il linguaggio non si può né si deve purificare, si può e si deve solo renderlo funzionale all’agire nel mondo – che poi è il lavoro che dovrebbe fare il filosofo e il consulente filosofico, l’unico suo proprio, perché il resto sono – appunto – conseguenze di questo suo lavoro e non suo compito specifico (lo sono di altri professionisti). Ma il modo in cui poni le cose nella tua prospettiva non è per nulla funzionale. Vediamo.
Anche concedendo di usare “filosofare” in modo analogo a “fare sport”, resta comunque il fatto che non c’è nessun elemento pratico, processuale, che i diversi sport condividano: giocare a tennis, boxare, sciare o giocare a rugby non hanno nessuna regola o prassi in comune. Non hanno in comune neppure l’obiettivo di vincere, perché si può sciare o andare in bicicletta senza tenere conto dei tempi e quindi senza competere. Neppure la ricreatività – dalla quale nasce il nome (l’inglese disport indica il divertimento) – è loro comune, perché ormai c’è chi fa sport per professione e non si diverte o “ricrea” per niente, ed è dubbio perfino che abbiano in comune la fisicità (peraltro non l’unico parametro dello sport fin dall’antichità). Niente tiene assieme queste pratiche, che sono dunque pratiche tutte diverse, per regole, processi e intenzioni, e vengono assimilate solo in modo convenzionale, come dimostra il fatto che alle olimpiadi gli sport entrano ed escono a ogni edizione.
Ciò ha alcune conseguenze rilevanti:
a. non ci sia nessuna specifica attività che si chiami “sport”;
b. è impossibile fare sport recandosi presso un’associazione sportiva e dicendo “faccio sport” senz’altre specificazioni: le stesse associazioni “polisportive” non praticano qualunque tipo sport ma solo alcuni, e indirizzano chi fa calcio a fare calcio e chi fa basket a fare basket;
c. non ci sono “scuole di sport”, bensì scuole di calcio, di tennis, di sci, ecc. ecc.
Come vedi alle differenze seguono denominazioni diverse, spazi e associazioni diverse: la convivenza è possibile, sì, ma stando ciascuno nei propri campi di gioco, con le proprie regole e le proprie “definizioni della pratica”. La tua interpretazione “ampia” della metafora va bene “a tavola”, dove “mi passi il sale” fa sì che con altissima probabilità ti venga offerto il cloruro di sodio, ma non in laboratorio, dove i sali a disposizione sono tantissimi e potrebbe esserti passato quello derivato dall’acido cianidrico…
Ma soprattutto la tua metafora non funziona per l’aspetto a: “socratizzare” indica una prassi reale, anche piuttosto ben identificabile, mentre “sport” non indica nessuna pratica, quindi è normale che sia definita in modo vago e per questo possa essere accostata a decine e decine di pratiche diversissime. La tua equiparazione proprio non regge.
Proprio per questo, però, mi pare che siamo venuti al punto, Giorgio (e anche che possiamo seguitare altrove, visto che qui che ce la suoniamo e ce la cantiamo solo noi due): in realtà stiamo parlando di due ambiti della realtà diversi, tutto qui. Io mi rivolgo a una cosa precisa, una pratica definibile e definita – certo non in modo totale e definitivo, ma quanto serve per essere “maneggiata”, servita come esaltatore di sapore e non come veleno; tu invece a una pluralità di cose indefinite, che stanno assieme per convenzione anche senza elementi comuni. Legittimo, ma per favore dai/diamo alle cose dei nomi che rispettino questa diversità e che garantisca una coerenza d’uso linguistico al variare dei contesti. Senza purezze, ma in modo che le cose siano “maneggevoli”. La confusione non le rende tali, perché ce le fa scambiare tra loro, impedendoci di fare le mosse giuste nel nostro agire quotidiano.
Potrei replicare che esiste livello” dello “sport” e un “livello” del “calcio”. Il secondo ha minore estensione e maggiore intensione (dunque “definitezza”) del primo. Apparentemente ogni livello potrebbe organizzarsi come meglio crede. Ma, nel caso della filosofia, il paradosso, secondo me, è il seguente: mentre è facile organizzarsi in “associazioni quadro” (paragonabili metaforicamente al CONI), proprio per la loro relativa indefinitezza (relativa, non assoluta: distinguiamo abbastanza bene lo sport dal lavoro in fabbrica o dalle cure domestiche), è molto più difficile costituire associazioni di livello inferiore (che nel caso della filosofia non sono affatto più definite che quelle del livello superiore), che non finiscano per coincidere col singolo professionista o cultore (prima che cambi stile). Infatti, mentre nel caso dello sport è possibile che questo determinato “gioco” definisca le proprie regole (p.e. come “calcio”), nel caso della “consulenza filosofica”, in quanto filosofia, il gioco, in quanto meta-teorico, finisce per giocare anche con le proprie regole, se le mangia strada facendo e cambia continuamente se stesso, come Proteo, trasformandosi in altri giochi. Quello che più o meno (pur con difficoltà) potrebbe resistere meglio e più a lungo, proprio per la sua vaghezza, è il “perimetro” di tutti questi giochi filosofici (l’idea o intuizione di “pratica filosofica”, cioè, in definitiva, di filosofia). Di qui l’opportunità che, se ci si deve associare, lo si faccia al livello storicamente più intelligente, che, secondo me, è quello del “gioco dei giochi” e non quello del singolo gioco (sempre sfuggente). So che la cosa suona molto “Wittgenstein”, ma mi scuserai: non vedo una ragione particolare (se non di ordine vagamente storico, per quanto riguarda la consulenza filosofica) per attribuire al pensiero di Pollastri un valore logico. epistemologico e neppure pratico-professionale maggiore del pensiero di Wittgenstein o, magari, di Giacometti, quando si tratta di stabilire le regole (o, se preferisci, l’essenza) del gioco filosofico, tanto in generale, quanto nelle sue specificazioni particolari. La mia idea di consulenza filosofica è quella che ho appena esposto (parte fluida di un gioco più grande), credo che corrisponda abbastanza all’idea di Achenbach (ma la cosa ha poi scarsa rilevanza, a meno che non si intenda far valere un principio di autorità), ritengo che stia dentro la “perimetrazione” dell’associazione a cui appartengo (che è il massimo di regolamentazione che ci si possa dare senza distruggere quello che si vorrebbe regolamentare, cioè distruggerne la filosoficità), la pratico gioiosamente. Allo stesso modo concedo con altrettanta gioia a chi intende diversamente la filosofia di fare quello che crede alla sola condizione che mi spieghi (e lo spieghi magari anche ai suoi clienti) perché, secondo lui, quello che fa è filosofia (e gli suggerisco di essere molto chiaro, proprio perché l’associazione a cui appartiene non può esserlo per lui). Ci confondiamo con i terapeuti esistenziali, i tapiri psicosofici, gli psicopompi morali, i paragnosti transpersonali? Mi rifiuto di inseguire questi e quelli, che sorgono, peraltro, come funghi, e di definirmi per differenza e in negativo. Io sono io, faccio filosofia con altri e chiedo un compenso per questo. Vorrei che la mia associazione mi tutelasse, non venisse a dirmi se faccio bene o male o entro quali limiti devo operare.
Non capisco, la psicologia usa tutto e si pone su tutto, la filosofia non può usare Freud, Lacan Grimm, perché? E assurdo
Francamente neppure io capisco la sua obiezione.
Innanzitutto non capisco se con “psicologia” intende lo studio dei comportamenti umani, come sarebbe proprio, o la cura delle loro “patologie”, per il quale sarebbe invece opportuno parlare di psicoterapia. Nel secondo caso (almeno in certe occorrenze) può aver senso dire “usa tutto”, nel primo francamente no.
In secondo luogo, non capisco di cosa stia parlando quando usa “filosofia”, termine che per la sua vaghezza sconfinante nella vacuità è responsabile della pessima fama della pratica. Io, come specificato, mi riferivo al processo del filosofare, ovvero alla ricostruzione ex novo di mappe del mondo, per il quale il riferimento diretto a dottrine come quelle che indicava è poco indicato.
Infine, soprattutto, non capisco perché la filosofia dovrebbe “usare” qualcosa: per quale finalità? La filosofia non è un agire strategico e quindi non “usa” alcunché.
Sospetto che lei non sia ben documentato su ciò di cui stavo parlando e discutendo con altri nel post.