Proprio in questi giorni, vent’anni fa, iniziavo a occuparmi di Praxis Filosofica, una disciplina allora del tutto sconosciuta in Italia, della quale avevo sentito parlare per un articolo comparso un paio d’anni prima sul quotidiano “il manifesto” (un’intervista ad Achenbach) e per essermi casualmente imbattuto, alla fine degli anni Ottanta, in uno “studio professionale di filosofo” di non ricordo più quale città tedesca.
Nella primavera del 1998, ricordando queste cose, decisi di informarmi. Cercai su una internet allora ancora piuttosto scarna e, grazie al sito della compianta Shlomit Schuster, misi assieme un po’ di informazioni, bibliografiche e logistiche, mi iscrissi a una mailing list internazionale, iniziai a orientarmi. A dicembre mi recai appositamente a Monaco di Baviera e, alla Bayerische Staatsbibliothek, mi procurai le fotocopie di vari testi, tra i quali Philosophische Praxis e Das Prinzip Heilung di Achenbach e una raccolta di interessantissimi saggi di vari autori, a cura di Ran Lahav. L’anno successivo creai, assieme a una quindicina di altre persone, il primo gruppo di lavoro sul tema che, dopo un fitto confronto su una delle poche mailing list produttive a memoria d’uomo e alcuni seminari in persona, coniò l’espressione “consulenza filosofica” (c’era solo un parziale precedente, nella traduzione del libro Socrate al caffè di Marc Sautet, uscita a febbraio 1998, ove si parlava comunque di “consultazione da un filosofo”) e poi fondò la prima associazione italiana, l’AICF, la quale – soprattutto perché comprendente diversi psicologi – usò nella sua denominazione il termine “counseling“.
Quell’associazione durò poco, per varie ragioni, una delle quali era alla base di tutte le altre ed era piuttosto concreta: gli psicologi volevano dar vita a una nuova professione d’aiuto, che portasse con sé tutti gli strumenti psicologici tipici di quelle professioni, mentre i filosofi – coerentemente al dettato del fondatore dell’attività, Achenbach – volevano creare una professione del tutto nuova e basata solo sul filosofare, sulla chiarificazione del pensiero degli ospiti. L’associazione fu chiusa e ne nacquero, giustamente, due: una dedicata al counseling filosofico, professione facente riferimento all’ambito psicologico e alle professioni d’aiuto, l’altra dedicata alla consulenza filosofica, professione che evitava volutamente i riferimenti alla psicologia e dichiarava fermamente di non appartenere alle professioni d’aiuto. Del resto, “consulenza filosofica” fu conianta da quel gruppo di pionieri italiani come traduzione non letterale dell’espressione tedesca Philosophische Praxis (ero tra coloro che la coniarono e posso ben dire che fu questo lo scopo della sua origine), ovvero della professione di Achenbach, il quale ha scritto che “solo una coscienza ottusa sa cos’è l’aiuto, solo la stupidità militante sa quando l’uomo è aiutato” (Cfr. Consulenza filosofica, Apogeo, 2003, p. 74) e che, a una mia domanda rivoltagli nel 2003 su cosa pensasse del philosophical counseling (allora rappresentato a livello internazionale dall’inglese Tim Le Bon), rispose con una sonora risata. Come mai poteva la consulenza filosofica ritenersi una professione d’aiuto e avvicinarsi al counseling?
Dopo vent’anni, come ho già scritto su questo blog, sono costretto a malincuore a riconoscere che la “consulenza filosofica” ha fallito, forse definitivamente, per molte ragioni che qui non ripeto. Una di essere però è la diffusione di interventi come La consulenza filosofica “tarallucci e vino”, di Luca Nave e Maddalena Bisollo, due sedicenti “esperti” e “formatori” di cosiddette “pratiche filosofiche”. In quell’intervento si legge infatti che
il CF [vi si intende Consulente Filosofico] è un esperto in filosofia e nelle relazioni di aiuto.
Ma, come dicevo sopra, ciò è semplicemente falso: quella è forse la descrizione di un counselor filosofico, quale Luca Nave è stato almeno fino a qualche tempo fa, non certo di un consulente filosofico! Quest’ultimo sicuramente non è un esperto nelle professioni d’aiuto (da consulente filosofico con vent’anni d’esperienza posso addirittura dire che è meglio che non lo sia) ed è persino discutibile che sia un esperto in filosofia: un consulente filosofico – come già scrivevo quattordici anni fa ne Il pensiero e la vita (Apogeo, 2004) – è invece un filosofo, ovvero una persona capace di produrre costrutti teoretici originali.
Dopo aver scritto questa erronea definizione iniziale, i due sedicenti “professionisti esperti” perseverano, affermando che
Il consultante si presenta sempre con un problema e il compito del CF, esperto in filosofia e in relazioni d’aiuto, è aiutarlo a uscire dalla situazione problematica. Questa è la CF come professione. C’è un “cliente” che ha un problema e paga perché vuole risolvere il problema; il professionista onesto risponde a questa richiesta dicendo se è in grado di risolverlo, altrimenti rimanda il cliente a qualche altro professionista.
Ho una partita IVA come consulente filosofico dal dicembre del 2000, ho avuto centinaia di ospiti e ho lavorato per quattro anni persino in un centro di salute mentale della ASL, in collaborazione con psichiatri e psicologi: ebbene, mai e poi mai ho avuto il compito di “aiutare” qualcuno a uscire da una situazione problematica, né le persone si sono presentate con l’idea di pagare perché gliela risolvessi. Dirò di più: nel mio articolo Il consulente filosofico di quartiere, uscito sul numero 332 di “aut aut” nel 2006, riporto i risultati di una statistica fatta sui fruitori del servizio pubblico sperimentale svolto sotto patrocinio e finanziamento dell’Amministrazione Pubblica di Firenze, dalla quale si evince, dalle loro stesse dichiarazioni, che nessuno degli ospiti era venuto con l’intenzione di risolvere alcun problema. Talvolta è capitato che qualche mio consultante avesse una tale esigenza, ma io, da “professionista onesto”, ho spiegato che il mio compito non era risolvere problemi bensì capire e chiarificare le sue mappe del mondo, condizione senza la quale lui (e non io) assai difficilmente avrebbe mai potuto trovare soluzione ai suoi problemi. Dopo tale chiarimento, nemmeno uno dei miei ospiti ha abbandonato la consulenza per andare da un altro professionista.
Gli autori di quell’intervento affermano tuttavia che accanto alla versione da loro descritta
esiste una versione della disciplina più light, molto condizionata dalle idee di Gerd Achenbach che risalgono a trent’anni fa, quando si sapeva solo che la CF non era la filosofia del “ghetto accademico” e non era una psicoterapia (“un’alternativa alla Psicoterapia senza essere una Psicoterapia alternativa”, scriveva l’ispiratore). Oggi, rispetto alla “fondazione negativa” della Philosophische Praxis (denunciata da Peter Raabe già dieci anni fa), sappiamo molto di più su come la disciplina funziona sul campo, se non altro perché i professionisti nella CF lavorano nel proprio studio privato, in contesti clinici, aziendali e scolasticii, perfezionando metodi e strumenti anche grazie all’aggiornamento professionale, “obbligatorio” in tutte le associazioni professionali
Quest’affermazione mi fa davvero temere che gli scriventi, oltre a stravolgere i termini della questione, siano assai poco informati. Infatti:
- quando la consulenza filosofica è nata in Italia per riprendere la disciplina di Achenbach era il 1999 ed esistevano già ben diciannove anni di esperienze sul campo fatte all’estero e gli scambi tra i professionisti italiani e stranieri sono stati la base della teorizzazione nel nostro paese;
- il citato Raabe, che “denunciava la fondazione negativa” della pratica achenbachiana, come ho ben riportato nell’introduzione del suo libro (peraltro da me stesso tradotto) non aveva mai letto i libri di Achenbach (non essendo stati tradotti in inglese e non conoscendo lui il tedesco), né aveva mai approfondito la questione con il diretto interessato;
- la pratica di Achenbach non è né “light”, né “fondata in negativo” (anche se un filosofo che possa dirsi tale non può ignorare che “omnis determinatio est negatio” e che perciò una fondazione in negativo dice moltissimo), come si evince benissimo leggendo Saper vivere (Apogeo, 2006) o frequentando almeno un po’ Achenbach (illuminanti i pochi esempi di consulenza da lui presentati per iscritto o in via dimostrativa ai convegni): è filosofia senza altre determinazioni, lavoro argomentativo sul pensiero dell’ospite a scopo di chiarificazione e lasciando del tutto fuori dal gioco “aiuti”, “problemi” e altre questioni;
- l’associazione per la consulenza filosofica Phronesis – che ha uno statuto e perfino un parziale riconoscimento istituzionale di tipo professionale da cinque anni, e che non cito per interesse personale, non facendone più parte – già da quindici anni “perfeziona metodi e strumenti anche grazie all’aggiornamento professionale” ma – pur conservando a mio parere al suo interno posizioni troppo diverse tra loro – è ben lontana dal confondere counseling e consulenza.
Ora, i due autori dell’articolo potrebbero forse sostenere che anche la distinzione tra “counseling filosofico” e “consulenza filosofica” sia da superare. Nel qual caso vorrei ricordare che uno dei due, Luca Nave, ha curato cinque anni fa un Dizionario del counseling filosofico e delle pratiche filosofiche (Mimesis, 2013) nel quale lui stesso ha scritto il lemma “counseling filosofico”, unificandolo sì a quello “consulenza filosofica”, ma criticando pesantemente la seconda proprio perché non facente uso degli strumenti del counseling e delle professioni d’aiuto: che continui dunque tanto a criticarla e a preferire il counseling (dal quale peraltro proviene), quanto a lasciarla libera da quelle influenze psicologico-strategiche senza confonderla con l’altro. Aggiungerei inoltre che conservo gelosamente una email di qualche anno fa dell’amico e collega Thomas Gutknecht, scritta dopo una sua visita presso la SICOF (ove militava proprio Nave), nella quale l’allora Presidente della tedesca Internationale Gesellschaft für Philosophische Praxis (IGPP) plaudiva alla distinzione tra counseling e consulenza filosofici e al dialogo tra pratiche diverse, ritenendo ciò importantissimo per dirimere le divergenze esistenti a livello internazionale tra ambito tedesco e nordeuropeo da una parte (ove si pratica la Philosophische Praxis/Consulenza filosofica) e ispanoamericano e nordamericano dall’altra (ove si pratica invece il Philosophical Counseling).
Tralascio completamente la seconda parte dell’articolo, dove ancora una volta (e come fanno tutti) si parla di “pratiche filosofiche” senza dire che cosa esse siano (ovvero cosa si intenda con tale espressione linguistica), osservando a questo proposito solo che il già citato Dizionario del counseling filosofico e delle pratiche filosofiche mancava incredibilmente proprio del lemma “pratiche filosofiche” (sic!).
In conclusione, l’articolo citato appare essere solo pura e semplice disinformazione, analoga a quella che oggi popola il dibattito pubblico sul web in tutti i campi, ed è doloroso che a farla siano due colonne di quella che dice di essere un’associazione di “professionisti delle pratiche filosofiche” e che svolge in questo campo attività formativa.
Doloroso, ma – alla luce dei miei vent’anni di esperienza nazionale e internazionale – non sorprendente.
La consulenza si dà per una tecnica e per l’uso di un’applicazione e pare improbo di orientare il pensiero alla ricerca della verità. La filosofia non è il Prozac. Piutosto ricerchiamo insieme i Principi esistenziali da condividere consapevolmente in un’epoca dove tutto cambia in modo sconvolgente. La psicologia è un’applicazione integrata nel campo d elle Scienze umane.
http://pibond.blogspot.it/2011/05/movimento-e-cambiamento.html
Mi scusi, ma la consulenza filosofica nasce, con Achenbach, esplicitamente come rifiuto delle tecniche delle scienze umane e dei “saperi da applicare”, mentre chi ha paragonato la pratica al Prozac è sempre stato irriso dagli esperti del settore. A giudicare dal suo commento pare proprio che lei non sappia bene di cosa stiamo parlando, che si sia informato dai “si dice” (dalla disinformazione che impera e di cui parlavo) invece che dalle fonti.
L’articolo è prezioso per la ricostruzione storica dell’origine della Consulenza filosofica in Italia. Col tempo il significato proprio della sua denominazione si è offuscato e i termini consulenza e counseling, complice anche l’endemica sudditanza per la lingua inglese, hanno finito per sovrapporsi. Ciò crea confusione nell’utenza, nonostante si tratti di discipline diverse per statuto epistemologico, origine, autori di riferimento e altro ancora. Si potrebbe obiettare che sono gli addetti ai lavori a volere ben distinguere i due ambiti mentre il largo pubblico non ne è poi così interessato; se non che, la normativa che disciplina le professioni cosiddette non regolamentate (Legge 4/2013) prevede che il professionista descriva la propria attività per mettere in condizione chi deve scegliere tra le varie offerte presenti sul mercato quale tipo di prestazione sia più adatta alle proprie esigenze e inclinazioni e cosa debba attendersi.
Un po’ di chiarezza dunque non guasta.
Ad esempio una differenza di fondo molto importante tra il counseling filosofico e la consulenza filosofica è che il primo ha una matrice psicologica ed è essenzialmente una relazione d’aiuto che nello specifico utilizza strumenti, concetti e metodi della filosofia.
La consulenza filosofica, invece, non è una relazione d’aiuto, è semmai una via che porta l’ospite a pensare ciò che vive e la sua finalità non consiste nel dare sostegno all’altro di fronte ad una situazione difficile.
La consulenza filosofica prende in considerazione direttamente il problema dell’ospite e lo affianca nella riflessione affinché quel problema che vive assuma per lui contorni più chiari distinguendo ciò che è importante da ciò che non lo è e, attraverso una comprensione più profonda, trovi da solo la via d’uscita.
Questa differenza è descrittiva, non valutativa, non pone una gerarchia tra il counseling filosofico e la consulenza filosofica; ci sono però precise differenze, intenzionalità e modi di procedere, qui appena accennati, che è bene rendere chiari come richiede il mercato, quando le sue regole sono state pensate proprio per questo.
Mi chiedo, e chiedo a chi ne ha esperienza diretta e di lunga durata: che cos’è il ‘fallimento’ in cui la consulenza filosofica sarebbe incorsa? Non potrebbe essere soltanto la difficoltà nel farsi strada di un modello reso vulnerabile dalla debolezza della sua componente non autentica, quella ‘del counseling’? E dunque si può parlare del fallimento della consulenza filosofica nella sua autenticità e totalità?
Oltre a ciò mi chiedo, e chiedo: è forse venuta meno la ‘domanda di riflessione’ espressa dalla società? Non di risposte: di riflessione. Non di ‘aiuto’: di riflessione. Una domanda spesso solo latente, ma esistente.
Io credo che il ‘problema’, il continuo porsi, nel pensiero individuale e collettivo, del ‘problema’, di un sempre nuovo e diverso ‘problema’, stia, consista, irriducibile alla ‘diagnosi’, e insoddisfatto della ‘terapia’ delle professioni di aiuto. E che, però, continui ad essere fonte di sempre nuovo pensiero.
Ora, come può, di fronte a tale risorsa vitale, la consulenza filosofica tirarsi indietro? Semmai, che trovi altre forme. Nel ‘valorizzare la domanda’, ‘il problema’, la Philosophische Praxis resta un’intuizione che interpreta e rappresenta la vita stessa: scansati gli equivoci, non se ne può fare a meno.
Francesco Paolo Mancini
La ringrazio per l’intervento, che nella sostanza condivido e mi permette di precisare il senso del “fallimento”.
La Philosophische Praxis aveva tra i suoi intenti primari l’affermazione di una professione di filosofo, condizione – diceva Achenbach – perché a questa disciplina fosse finalmente data l’importanza che ha e perché i filosofi smettessero di sentirsi superiori al fine di compensare l’inferiorità di non guadagnarsi da vivere in virtù delle loro competenze (ho riassunto in modo forse grossolano, ma il senso è questo). Ebbene, su questo punto, che in Achenbach era capitale e indissolubile dagli altri (cambiamento della filosofia, superamento del paradigma psicoterapeutico, diffusione della prassi filosofica tra quella parte di popolazione che la ignora affatto, ecc.), la consulenza filosofica ha fallito, perchè dopo vent’anni nessuno vive di questa attività (se c’è qualche esempio contrario è troppo raro per parlare di affermazione della professione e, comunque, non vive di “consulenza” ma perlopiù di formazione, di interventi ibridi, ecc.). Non ha fallito invece il processo della consulenza, e io ne sono una prova: gran parte delle mie esperienze (ovviamente non tutte, non sono un mago) hanno avuto esiti positivi; quando ho lavorato in un Centro di Salute Mentale non solo ho riscosso la stima dei colleghi psichiatri e psicologi, ma posso anche dire di aver salvato almeno una vita; certe volte, al termine delle consulenze, mi domando stupito perché non ci sia la coda fuori dal mio studio. E poi mi rispondo: perchè mai, in Italia, la pratica è stata presentata per quello che è; mai, anzi, è stata presentata in modo univoco, con la scusa che “la filosofia è tante cose, è libertà” e dimentichi che proprio per questo di lei si dice che “è la cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale”.
Quindi sono d’accordo con lei sia sul fatto che della Philosophische Praxis non si può far a meno, perché proprio di riflessione c’è bisogno, sia sull’ipotesi che sia stata lesa dalla commistione con il counseling (e anche con la formazione, con la cura, con l’ascolto, ecc. ecc.). Né ho intenzione di tirarmi indietro, infatti scrivo su questo blog per stigmatizzare tutte le distorsioni che rischiano di uccidere, dopo la professione, anche il processo della Philosophische Praxis: l’articolo citato che altro faceva, se non alludere a una pretesa obsolescenza della pratica di Achenbach, per l’appunto forse il solo che ci vive piuttosto bene, visto che ha pure cinque figli? Spero solo di non restare solo a fare quest’opera, come un po’ troppo spesso mi è capitato in questi vent’anni. E interventi come il suo mi rincuorano.
Sono un medico laureato anche in Psicologia, convinta che la Filosofia abbia molto da dire sulle ragioni del disagio umano che sono, in primis, esistenziali (conclusi la mia tesi di seconda laurea in questo modo). Durante il mio lavoro come medico di guardia medica ricordo “interventi” durati notti intere o pomeriggi vuoti di sabato e domenica di tarda primavera o di agosto (quando tocchi con mano la sofferenza e la disperazione di chi hai davanti, che può arrivare a credere di essere l’unico a soffrire mentre gli altri sono al mare) volti a scongiurare trattamenti sanitari obbligatori. Piano piano mi avvicinavo al malato, e dopo aver cercato di capire cosa succedeva ed averlo fatto sfogare pensavamo insieme al dolore, alla condizione umana, alle differenze culturali nell’interpretazione della follia. Cercavo di far capire il senso e il limite di quello che io e la medicina occidentale avevamo in quel momento da offrire, che era ritiro temporaneo dal mondo, protezione, ed un trattamento farmacologico volto ad alleviare il dolore, sotto forma di un ricovero in ospedale di breve durata. Solo una volta fui costretta a far portare la persona a forza in ospedale.
Ora io mi perdo un po’ intorno alla questione di cui state dibattendo, ma di una cosa sono sicura: in quei pomeriggi vuoti, in quelle notti, io ed i cosiddetti folli facevamo filosofia. Ed era emotivamente coinvolgente, ed uscivamo trasformati, io e loro. Sono pertanto curiosa ed interessata di saperne di più sul suo lavoro presso il CSM: ho guardato la lista dei libri cui fa riferimento nel blog, ma mi sembra che non ci sia nulla. Potrebbe darmi dei riferimenti?
Gentilissima Monica, se da quelle notti ne uscivate trasformati probabilmente era davvero filosofia, perché un confronto filosofico non è questione di aiuto, ma fa apprendere tutte le parti in gioco. Io ho appreso molto sul mondo e su come “mapparlo”, ragionando con gli psicotici e provando a capire perché ritenessero vivi i morti o avessero dialoghi con Renzi, Trump, i terroristi degli anni Settanta… Colpevolmente non ho poi più scritto una monografia sulla mia esperienza al CSM, ma può trovarne un resoconto sintentico in questo articolo, comparso sulla rivista Phronesis. Lo legga, poi magari sentiamoci, per telefono o per email (entrambi sono disponibili sul mio sito), così potrò darle maggiori informazioni su quella esperienza, per me (e anche per alcuni dei miei ospiti) importantissima.
Conosco solo marginalmente la problematica, ma stimolato dalla piacevole “intransigenza” di Neri dico la mia. Nel rapportarmi con gli altri i momenti più fruttuosi sono arrivati imprevisti ascoltando pensieri originali di alcuni amici. Costrutti vivi che mi hanno attivato un più chiaro vedere sia teoretico che empirico, come se avessero proficuamente innescato dei recettori specifici che stimolati hanno prodotto svolte. Il punto è che in questo operare dell’altro che ho ingurgitato al volo per elaborarlo, anche se talvolta boccone amaro, non albergava negli autori alcun interesse o intenzione di curarmi, di aiutarmi, di educarmi. Stando sul pezzo parlavano da loro, per loro, con me, col mondo. L’intenzione di curare indispensabile negli ambulatori dentistici in situazioni differenti può rivelarsi prepotente. Chi si pone come educatore di uomini (non necessariamente come professionista), o come curatore di anime (non necessariamente religioso), talora operano presupponendo uno stato di bisogno e vulnerabilità dell’altro, vale a dire un implicito stato di subordinazione a loro. Lo ascolteranno misericordiosi già sapendo quale sarà il bene per l’altro e applicheranno procedure note, apprendibili e ripetibili (discipline), pianificando amorevoli percorsi per curarlo e guarirlo, ossia che l’oggetto bisognoso si conformi al concetto di bene prefissato dal soggetto curante. Questo non è sufficiente per diagnosticare l’eventuale malattia del presunto miserabile, però basta e avanza per vedere che il malato non è forse lui. Per uscire dal pantano – governare, educare, curare, mestieri impossibili (Freud) – è forse necessario che la relazione poggi in presa diretta sull’improvviso onesto pensiero espresso e ascoltato da tutti gli interlocutori, nel comune disinteresse a prefabbricati beni da raggiungere, noncuranti di qualsiasi garanzia di riuscita. Eppure fa bene, talvolta guarisce. Effetti collaterali.
Grazie Bruno, anche se non è esattamente il modo in cui mi pongo nel mio lavoro, quel che scrivi in parte ci si avvicina. Aggiungerei che tutte le “competenze” delle professioni d’aiuto, le forme di comprensione dell’altro, le tecniche di ascolto empatico, e via dicendo, diventano filtri che modificano il discorso che si elabora nell’interazione teoretica. Il problema di fondo è che alla verità del discorso qui nessuno dà veramente importanza: bisogna “prendersi cura”, “aiutare”, “comprendere”, costruire un discorso sul mondo che – piaccia o non piaccia sia a noi che all’interlocutore – sia “vero”, in altre parole FARE FILOSOFIA, pare non interessi a nessuno. Pazienza, mica voglio che interessi a tutti per forza. Però questo e NON ALTRO era “la sfida della Philosophische Praxis”. Di fronte alla sfida, tutti se la sono data a gambe.